La storia delle cellule staminali inizia a metà dell’Ottocento quando il biologo tedesco Ernst Haeckel usa per la prima volta nella letteratura scientifica questo termine (“stamzell” in tedesco). In quegli anni però, le cellule staminali erano considerate come l’antenato unicellulare di tutti gli organismi. Questo concetto, seppur distante alle cellule staminali come le conosciamo noi, viene anche ricalcato da un medico italiano, Giulio Bizzozero, che studiando i tessuti del corpo umano li classifica in tre grandi gruppi: labili (es. midollo osseo), stabili (es. fegato), perenni (es. tessuto nervoso). Descrive i primi come sotto costantemente processo di rigenerazione al fine di conservarne immutate la costituzione e le proprietà, mentre i tessuti stabili erano considerati rinnovabili solo a seguito di un danno. La categoria finale dei perenni invece avrebbe dovuto comprendere quei tessuti che non sono in grado di rinnovarsi.  Ad oggi sappiamo che questa categorizzazione è ben distante dalla realtà.

Successivamente, altri importanti scienziati iniziarono a usare il termine cellula staminale per riferirsi a singole cellule capostipiti di una discendenza cellulare, come per esempio le cellule progenitrici del sangue. Questa idea rimane non dimostrata fino al 1963, quando Ernest McCulloch e James Till dimostrarono la presenza di cellule progenitrici capaci di rinnovarsi nel midollo osseo di topo. In particolare coltivarono la blastocisti (cioè l’insieme di cellule che si ottiene dopo la fecondazione) di topo ottenendo cellule staminali embrionali pluripotenti.

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Alcuni anni dopo nel 1981, con il miglioramento delle tecniche di laboratorio, Martin Evans – successivamente nel 2007 venne insignito del Premio Nobel per la sua scoperta – riuscì per la prima volta ad isolare le staminali da embrioni di topo e a farle crescere in laboratorio fino ad ottenerne migliaia: le cosiddette cellule staminali embrionali. Al biologo James Thomson, dell’Università del Wisconsin a Madison, ci vollero altri 14 anni per realizzarlo nelle scimmie, nel 1995.

Nel 1998 la svolta: usando embrioni donati per trattamenti di fertilità che erano rimasti inutilizzati, Thomson crea la prima linea al mondo di cellule staminali embrionali umane. Per la prima volta vengono isolate e coltivate cellule staminali embrionali a partire da blastocisti umane creando linee cellulari stabili nel tempo. È il primo studio ad avere successo e viene accolto dalla comunità scientifica come una svolta. Dall’altra parte, questa scoperta ha anche sollevato alcune questioni etiche in quanto per ottenere questa linea cellule fu distrutto un embrione umano.

Anche per questo gli anni successivi ci si è concentrati sulle cellule staminali adulte, e intorno agli anni 2000 vengono pubblicati numerosi studi sulla plasticità di staminali adulte, volti ad identificarne la potenzialità terapeutica.

Sulla base di questi importanti studi, nel 2006 il gruppo di Thomson (in contemporanea ad un altro gruppo di ricerca giapponese, diretto dal dottor Shinya Yamanaka) riesce a riprogrammare cellule adulte in cellule staminali. Introducendo in cellule umane adulte quattro dei geni chiave delle cellule staminali embrionali lo scienziato le fa regredire indietro nel tempo fino allo stadio di pluripotenza, cioè ad un livello simile a quella delle cellule staminali embrionali presenti nella blastocisti. Queste cellule hanno preso il nome di cellule staminali adulte riprogrammate e possono essere cresciute indefinitamente in vitro e, a seconda delle condizioni di coltura modificabili artificialmente, possono generare diversi tipi di cellule differenziate.

Queste scoperte hanno aperto la strada a infinite possibilità di cura, attualmente in studio per diversi tipi di patologie.